Il significato di "Io sono lui" nelle Scritture: Un'analisi del linguaggio di identificazione

L'espressione "Io sono lui" (ego eimi in greco, ani hu in ebraico) rappresenta un caso esemplare di come una formula linguistica comune possa acquisire stratificazioni teologiche più profonde senza perdere il suo significato originario. Un'analisi accurata rivela sia l'uso quotidiano dell'espressione sia la sua particolare elaborazione nel Vangelo di Giovanni, mantenendo tuttavia una chiara distinzione tra identificazione messianica e rivendicazione di divinità ontologica.

Le fondamenta veterotestamentarie

Nell'Esodo 3:14, la risposta divina "Ehyeh asher ehyeh" ("Io sarò ciò che sarò") si collega direttamente alla promessa precedente "Io sarò con te" (v. 12). Significativamente, Dio specifica immediatamente dopo che il suo nome è "Yahweh, il Dio dei vostri padri", chiarendo che la formula dell'essere non costituisce il nome divino, ma una dichiarazione relazionale di presenza e fedeltà.

In Deuteronomio 32:39, la formula "ani ani hu" enfatizza l'unicità personale di Yahweh attraverso la ripetizione pronominale. La struttura grammaticale (ani - prima persona, hu - terza persona) sottolinea che chi parla è una singola persona, il che costituisce un argomento contro interpretazioni trinitarie piuttosto che a loro favore.

La normalità dell'uso umano

La caratteristica più illuminante di questa formula è la sua ordinarietà nell'uso quotidiano. Il re Davide in 1 Cronache 21:17 utilizza ani hu pregando Yahweh per confessare la propria responsabilità, senza suscitare accuse di bestemmia. La letteratura rabbinica conferma questa normalità: nel Talmud babilonese, figure come il rabbino Akiba e persino il re Erode utilizzano l'equivalente aramaico "ana hu" per semplice auto-identificazione.

Questo dato è cruciale perché stabilisce che l'espressione non era percepita automaticamente come una rivendicazione divina. Era, piuttosto, il modo naturale per dire "sono io la persona di cui parlate".

L'elaborazione greca e l'enfasi

Nel greco della Settanta, ego eimi traduce sistematicamente la frase ebraica completa "ani hu", non il semplice pronome. La grammatica greca conferma l'enfasi: nel verbo eimi il soggetto è già incorporato, rendendo ego ridondante eccetto che per scopi enfatici. Quando appare, l'accento cade drammaticamente sul soggetto.

La strategia teologica giovannea

Nel Vangelo di Giovanni emerge una strategia narrativa sofisticata. L'evangelista utilizza la familiarità dell'espressione per costruire progressivamente un'identificazione messianica sempre più chiara. Inizia con contesti inequivocabili: alla donna samaritana che parla del Messia venturo, Gesù risponde "Io sono lui che ti parla" (4:26). Qui il significato è cristallino: identificazione messianica.

Tuttavia, Giovanni sviluppa questa identificazione in direzioni teologicamente più dense. In 8:58, "prima che Abramo fosse, io sono lui", l'evangelista opera su più livelli. Da un lato, mantiene l'identificazione messianica standard; dall'altro, la colloca in una cornice di preesistenza che, secondo le aspettative rabbiniche, era appropriata per il nome del Messia nei piani divini.

La preesistenza messianica nella tradizione ebraica

Il Genesis Rabbah distingue chiaramente tra preesistenza letterale (Torah, trono divino) e preesistenza nella contemplazione divina (patriarchi, Israele, nome del Messia). Questa distinzione è fondamentale: il nome del Messia preesisteva nei propositi divini, non il Messia stesso come entità separata. Gesù può quindi dire "prima che Abramo fosse, io sono lui" riferendosi a questa preesistenza del suo ruolo messianico nei piani divini, senza rivendicare preesistenza personale ontologica.

La reazione degli ascoltatori: scandalo messianico, non teofanico

La reazione violenta in Giovanni 8:59 non deriva dalla percezione di una rivendicazione divina, ma dallo scandalo di una pretesa messianica giudicata blasfema. Un Gesù che afferma di essere il Messia preesistente nei piani divini prima di Abramo sta facendo una rivendicazione messianica straordinaria che i suoi oppositori giudicano presuntuosa e meritevole di morte.

La duplice lettura: quotidianità e profondità teologica

Il genio dell'evangelista Giovanni consiste nell'utilizzare un'espressione di identificazione quotidiana per veicolare una teologia messianica sofisticata. "Io sono lui" rimane quello che è sempre stato - un modo per dire "sono io la persona che cercate" - ma acquista risonanze messianiche specifiche nel contesto della missione di Gesù.

Quando i soldati cercano "Gesù il Nazareno" nell'orto degli ulivi (18:5-6), la risposta "Io sono lui" è letteralmente vera: è effettivamente la persona che cercano. Tuttavia, la reazione di stupore e caduta suggerisce che l'evangelista vede in questa semplice identificazione una manifestazione della potenza messianica.

Conclusioni: identificazione messianica, non divinità ontologica

L'evidenza convergente indica che Gesù utilizza "Io sono lui" principalmente per identificazione messianica, sfruttando sia la normalità dell'espressione sia le aspettative ebraiche sulla preesistenza del nome messianico. La strategia giovannea trasforma un linguaggio quotidiano in veicolo di cristologia messianica elevata, ma senza attraversare la linea verso rivendicazioni di divinità ontologica.

La formula rimane quello che è sempre stata: un modo enfatico per dire "sono io quello di cui parlate", ma nel caso di Gesù, quello di cui si parla è il Messia promesso, preesistente nei piani divini e ora presente nella storia. Una lettura che rispetta sia la semplicità originaria dell'espressione sia la profondità teologica della sua elaborazione giovannea.

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